Negli ultimi trent’anni in Italia abbiamo assistito al proliferare della nascita di Centri Commerciali dei più svariati modelli e dimensioni. Da qualche giorno ha chiuso le porte il Mapic di Cannes e quindi il tema dei Centri Commerciali è di grande attualità. In un periodo come quello pre-natalizio, in cui spesso si torna a parlare del sistema retail e dell’importanza dei piccoli commerci, l’architetto Massimo Roj si concentra proprio sui centri commerciali e su come questi si allontanino sia esteticamente che culturalmente dal modo di vivere italiano, che storicamente preferisce la piazza come luogo di incontro e di scambio piuttosto che luoghi ricostruiti artificialmente ed estranei al tessuto urbano.
“Siamo abituati a pensare che viviamo nel Paese più bello del mondo, sottolinea Roy, ed è vero: siamo il Paese dove si mangia bene, dove si beve bene, dove ci si veste bene, dove l’artigianalità e la qualità sono ancora valori che fanno la differenza.
Ma cosa succede se non si trovano più gli alimentari, le botteghe, i negozi di abbigliamento o di oggettistica, i così detti negozi di vicinato?
Non si tratta di una domanda retorica: sempre più spesso, passeggiando per le vie di un piccolo centro cittadino, dove prima c’era un negozio in piena attività è ora molto facile trovare una saracinesca abbassata e un cartello recante la scritta “Chiuso”. Per fallimento, per cessata attività, per liquidazione.
Anche gli ultimi dati di Confcommercio confermano questo quadro: su un campione di 40 città italiane, escluse le più grandi come Roma, Milano e Napoli, nel periodo 2008-2016 i negozi del commercio al dettaglio hanno subito un calo del 13,2%. Nei centri storici in particolare la loro presenza è scesa del 14,9%, mentre fuori si attesta un -12,4%. Sono numeri che devono farci riflettere e sui quali in particolare la categoria a cui appartengo, cioè quella degli architetti, deve soffermarsi.
E’ naturale pensare che questi numeri scontino l’evoluzione dei tempi, che porta con sé un modo nuovo di vivere il tempo libero e gli spazi urbani, tuttavia quello che maggiormente sta contribuendo a segnare il destino dei nostri centri storici è la crescita smodata della GDO, dei grandi centri commerciali che con le loro politiche di prezzi aggressive non aiutano il piccolo commerciante.
Tralasciando i dati più prettamente economici e politici, che non mi competono, da architetto mi preme invece sottolineare l’aspetto estetico e culturale. Nel primo caso, credo sia sotto gli occhi di tutti la scarsa attrattività di alcuni centri commerciali, assimilabili a “grandi scatoloni”, privi di qualsiasi senso estetico e mal inseriti nei contesti circostanti, senza alcuna continuità ambientale. Dal punto di vista sociale, invece, dovremmo ragionare su come la loro presenza abbia cambiato il nostro modo di aggregarci e incontrarci. La piazza, che per secoli ha fatto parte della nostra cultura è stata infatti progressivamente sostituita da questi nuovi luoghi dedicati alla socialità, sempre più lontani dal centro abitato. Si tratta di un aspetto, quest’ultimo, che non prescinde dai valori che sia l’architetto che la classe politica devono considerare nella progettazione dello sviluppo di un centro urbano.
Gli ultimi progetti retail che ho visto presentati al MAPIC di Cannes nelle scorse settimane, invece che cogliere questa fotografia cupa dei nostri centri urbani, cavalcano ancora la moda dei grandi centri commerciali costruiti in zone lontanissime dal centro, spesso e volentieri senza preoccuparsi di creare o di trovare un possibile legame con la storia, la cultura, il territorio in cui andranno a sorgere. Alcuni di questi progetti sono gallerie commerciali gigantesche che non hanno alcun rapporto con il contesto, “atterrati” da un altro pianeta, come astronavi dotate di un linguaggio architettonico completamente astruso dall’ambiente architettonico e culturale circostante.
Questi progetti mi fanno seriamente pensare che invece che ad un’evoluzione del retail, stiamo assistendo ad un’involuzione: la proliferazione di questi nuovi mall, che quasi fanno a gara a chi è più grande, rischia sempre più di impoverire e di uccidere i nostri centri, che invece sono la ricchezza del nostro Paese e un perno della nostra tradizione e della nostra memoria.
Come architetto mi sono trovato più volte a confrontarmi con i clienti che ci chiedevano progetti per nuovi centri commerciali e quello che ho sempre cercato di trasmettere è un nuovo modo di vivere e di concepire questi luoghi, con la volontà di instaurare un legame forte e positivo tra il costruito, il contesto e il contenuto, sia che si trattasse di nuove realizzazioni che di riqualificazioni di vecchi immobili. Nonostante ciò, sono assolutamente convinto che si possa fare di più e si possa intavolare una discussione propositiva con le municipalità e soprattutto con i developer e i gestori, per ripensare ad un format diverso, che non voglia dire solo inserire entertainment nel luogo commerciale, ma riproporre una vita reale, fatta di luoghi veri per la socialità.
E’ necessario invertire questa rotta e muoverci per riattivare i centri cittadini, attraverso operazioni di “de-malling”, di riqualificazione e di rivalorizzazione che devono ricucire queste zone commerciali con il contesto e farle tornare ai loro antichi “fasti”, per dare vita a delle esperienze di vera qualità. Dobbiamo riappropriarci della nostra storia e della nostra cultura, esserne orgogliosi e non adottare modelli che non ci appartengono: i centri commerciali nascevano infatti negli anni ’50 negli USA, per creare delle destinazioni, dei luoghi artificiali di incontro e di eventi per sopperire alla mancanza di questi nelle campagne americane dell’epoca. Noi non abbiamo bisogno di questi luoghi “finti”, perché abbiamo già i centri urbani, le piazze e le vie più belle del mondo!
Una proposta potrebbe essere di non conteggiare più nella SLP gli spazi commerciali di vicinato, una sorta di “defiscalizzazione” dei metri quadri retail nei centri urbani; ossia una serie di misure per alleggerire il carico fiscale e dar respiro ai commercianti al dettaglio, permettendo loro minori costi, eliminando per periodi iniziali l’affitto, tornando ad essere competitivi e soprattutto rivitalizzando i nostri stupendi centri storici.
Interventi come quello realizzato nell’area Garibaldi-Repubblica, conclude Massimo Roy, con la realizzazione di una nuova area apogea, piazza Gae Aulenti, sono esemplari per dimostrare che il commerciale migliore è quello inserito nel contesto urbano, utile a ricucire il territorio ed ad integrare funzioni differenti, anche se si tratta di nuova edificazione. Alla fine potremmo stare seduti nelle nostre città aspettando turisti da ogni parte del mondo che vengano a ri-vivere le vibranti esperienze delle nostre radici storiche; insomma un’Italia aperta al futuro, ma ricca del suo passato”.
Lo sviluppo dei Centri Commerciali è e sarà un tema di grande attualità per le trasformazioni dei nostri centri urbani e del nostro Paese quindi speriamo che questa prima riflessioni dell’architetto Roy possa segnare l’inizio di una serie di riflessioni che ci impegniamo ad ospitare nelle pagine del nostro portale.
I centri commerciali fanno parte di quegli spazi che l’etno-antropologo francese Marc Augé definisce “non-luoghi” in cui moltitudini di individui si incrociano senza entrare in relazione, spinti solo dal desiderio di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane, ma ovviamente si tratta solo di uno dei tanti punti di riflessione ed analisi. Da da una ricerca del 2010 effettuata in Italia su un vasto campione di studenti delle scuole superiori emerge, infatti, come i centri commerciali siano uno dei punti di ritrovo d’elezione per gli adolescenti, che li pongono al terzo posto delle proprie preferenze d’incontro dopo casa e bar.
Secondo Marco Lazzari – Prorettore all’Orientamento dell’Università di Bergamo – i cosiddetti “nativi digitali” lo sono anche rispetto ai centri commerciali. Snobbati da molti come nonluoghi i centri commerciali sono per i ragazzi di oggi invece un punto di riferimento importante mentre rispetto a questi presunti nonluoghi gli adulti scontano un pregiudizio derivante dal fatto che essi non li vivono “nativamente”.